di Giorgio Frabetti

Ne La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il regista bolognese Pupi Avati ripropone la sua “maniera”.
E stanca.
Stanca perché la “maniera” è ormai “manierismo”. Come nella stucchevole sequenza in bianco e nero dell’inizio (e della fine) in cui una gelateria di Bologna viene dipinta come una sorta di “taverna degli angeli”: le bambine e i bambini in veste bianca lì radunati sono agiografia di quart’ordine, un’iconografia angiolesca trita e ritrita, da chiesa di campagna che ormai non impressiona nessuno. Almeno ai tempi della Gita Scolastica (1983), lo Spirito divino alias l’Incanto (chè, diciamolo francamente, la Gita è forse l’unico film che in fondo abbia voluto parlare della scintilla divina nella nostra vita, se non del divino stesso), era più discreto, ineffabile e forse per questo più struggente e commovente. Qui è tutto troppo esplicito, troppo urlato: dagli angeli dell’inizio, che ricordano la lentezza surreale di certi sceneggiati RAI anni ’60 all’apparizione del Padre defunto (nientemeno, non ci siamo fatti mancare l’inviato dall’aldilà nelle vesti di Cesare Bocci). Segno di un’inventiva ormai impantanata che non sa più impressionare.
E non convince.
Non convince per una ragione decisiva: stile (registro stilistico) e storia stridono: come una veste di un neonato indossato da un adulto. C’è un’incoerenza, un’inconciliabilità di fondo tra storia e “maniera” (registro, stile) del film.
Dicevo prima “maniera avatiana”. Ma cosa intendo? In estrema sintesi (chiedendo scusa per l’inevitabile generalizzazione) con “maniera avatiana” intendo una “maniera poetico-patetica” di raccontare storie al cinema. Ora, la storia di Marzio e Sandra è patetica certo ma è soprattutto … penosa. E non è poetica. Cioè (questo il mio personale giudizio) non si presta alla maniera “poetico-patetica” di Avati.
In altre parole, il film è la storia di due persone, un uomo e una donna, marito e moglie, che rimangono di fatto adolescenti almeno fino a 70 anni, combinando nella loro vita una serie di disastri, salvo ritrovarsi alla fine, quando ormai la fragilità dell’età consiglia a entrambi di unirsi per affrontare la vecchiaia.
In poche parole: due eterni adolescenti non fanno piangere. Magari li si compatisce, il che è diverso. E magari generano insofferenza: di eterni adolescenti nella vita reale ne vedi a migliaia e non hai certo voglia di spendere 6-8 euro al cinema per vederne uno, anzi due. O meglio: potresti avere la voglia di vedere un film su questo soggetto se solo fosse raccontato in modo diverso…
Ma riavvolgiamo il nastro e cominciamo dall’inizio.
“Stile del film e storia stridono”, dicevo. Cosa intendo dire? Più semplicemente questo: il “tema” del film è buono, ma non trova uno “svolgimento” adeguato e coerente nel racconto. Procediamo con ordine.
Il tema: l’adolescenza.
Come noto, l’adolescenza è quasi un’ossessione per Pupi Avati. Il regista bolognese, infatti, ha spesso dichiarato di cercare nei suoi film di ricostruire l’epoca, l’atmosfera della sua adolescenza. Un’epoca fuggita e bruciata troppo in fretta per l’urgenza del vivere (matrimonio, lavoro etc.). Non è sempre chiaro cosa Avati intenda, ma scorrendo molti suoi film (da Gita Scolastica a Festa di Laurea a Quando arrivano le ragazze etc.) notiamo come spesso i personaggi di Avati rivendichino con la cocciutaggine degli adolescenti il loro diritto di sognare e di non arrendersi davanti alla “realtà”, convinti di avere la “buona stella” dalla loro parte.
Un ulteriore rappresentante di questo mondo è indubbiamente il Marzio de La quattordicesima domenica del tempo ordinario (interpretato da Lodo Guenzi, in gioventù e Gabriele Lavia, in età avanzata). Marzio è il classico “eterno adolescente”: infatti, nonostante una vita di fallimenti, a 70 anni, rivendica ancora il diritto a sognare una vita da artista.
Avati, però, amplia la visuale. Se Marzio è l’ “eterno adolescente” per come è usualmente etichettato dalla chiacchiera corrente, gli altri personaggi in realtà non sono messi proprio meglio. Se Marzio è un eterno “consumatore” di sogni irraggiungibili, che non si converte mai alla maturità, la moglie Sandra è imprigionata nel suo mondo egoistico, anche per colpa di un matrimonio fallito che non l’ha fatta crescere come donna. Samuele, a sua volta, cerca di sfuggire dalla sindrome adolescenziale dell’amico Marzio cercando la maturità nei soldi e nella carriera, ma rimanendone tragicamente travolto. Il momento certo più straziante e commovente (soprattutto più vero) è quello in cui Samuele parla al figlio in ospedale promettendogli una fantastica gita in barca. Lui non lo sa, ma il figlio è già morto. Quando lo apprende dall’Infermiera, Samuele realizza che i suoi soldi, la sua posizione di dirigente bancario non contano nulla, non sono riusciti a salvare il figlio; e si suicida.
In questo “rapporto a tre”, Avati cerca di instillare il dubbio: “Siete ancora sicuri-sembra chiederci- che l’adolescente sia solo Marzio, l’artista fallito?”. Sì, perché “adolescente”, nel linguaggio usuale, indica chi non ha raggiunto l’età adulta, ovvero la maturità. Ma cos’è la “maturità” oggi? Avati fa bene a problematizzare quest’idea perché se c’è un’idea veramente problematica negli ultimi 40-50 anni (nel mondo occidentale) è proprio l’idea di “maturità”, ovvero di età adulta. Basti, ad esempio, scorrere le pagine di Neil Postman, sociologo americano, che nel 1982 pubblicò La scomparsa dell’età adulta. Postnam notava come la forza dell’immaginario collettivo, plasmato dai mass media e dal mondo della pubblicità, avesse sostanzialmente appiattito le tradizionali distinzioni tra giovinezza e maturità, facendo della vita delle persone sostanzialmente un’unica età … giovanile. Quando il mondo diventa tutto un indistinto emporio di merci e la realizzazione delle persone è nelle cose, nei soldi, nel potere, l’età non conta. “La maturità è tutto” diceva Shakespeare. “La maturità è niente” pare che si dica oggi, quel che conta sono i soldi. Ovvero produrre e consumare. E questa è incontestabilmente la storia di Marzio, Sandra e Samuele. Questo è il tema del film.
Il tema del film quindi tutto sommato è attuale e interessante. A essere sbagliato, invece, è … lo “svolgimento”.
Il film è di fatto diviso in due parti che si sovrappongono continuamente: il racconto del passato dove i personaggi, Marzio, Sandra, Samuele (interpretati da Lodo Guenzi, Camilla Ciraolo, Nick Russo) sono giovani; e una seconda dove i personaggi sono anziani (Gabriele Lavia, Edwige Fenech, Massimo Lopez). Il problema sta qui: le due parti non si amalgamano.
Se proprio vogliamo, la “parte” del film occupata dai “personaggi giovani” è quella sviluppata un tantino meglio. Sia chiaro: la storia è infarcita di stereotipi e di deja va avatiani (i ragazzi giovani speranze della musica, con defezione di uno che si “imbosca” in banca -vedere Jazz Band, Cinema!, Quando arrivano le ragazze…, la crisi coniugale a tre con acclusa moglie che va col migliore amico del marito, una rifrittura, questa, da Regalo di Natale e altri). La rifrittura di situazioni e temi già rivisti da Avati è almeno digeribile perché è sciolta nel realismo crudo ed efficace dei momenti migliori del regista bolognese (esempio Regalo di Natale, Ultimo minuto).
La storia dell’incontro, del matrimonio, della separazione di Marzio e Sandra è sviluppata in modo molto ordinato e circostanziato. La loro storia d’amore e di odio è in fondo la storia di due egoismi: egocentrico ed inguaribilmente sognatore lui (forse perché troppo coccolato da mammà, forse perché rimasto senza papà fin dalla tenera età), egocentrica e arrivista lei, uscita da una famiglia disgregata, dalla quale ha ricavato molta freddezza e poco calore (“Vuoi sposare mia figlia?” dice Sidney Rome che qui interpreta la parte della madre di Sandra “Sarà la tua rovina!”). Ma di un egocentrismo più complesso, la cui evoluzione possiamo seguire durante tutto il corso del film.
Notiamo una cosa: per un lungo tempo, Sandra non affligge il marito Marzio con le ramanzine che farebbero tutte le mogli davanti ad un marito ormai trentenne che cincischia con i sogni di gloria: “Smetti di vivere d’aria, trovati un lavoro”. Mai. Perché? Per il semplice motivo che Sandra è innamorata e crede ai sogni del marito: la canzone del suo duo con Samuele, i Leggenda, sfiora Sanremo e fino ad allora lei accetta le difficoltà sperando nel successo del marito. Poi tutto crolla: quando Sanremo sfuma, quando il duo Leggenda si sfalda (perché Samuele giudiziosamente rinuncia in nome della carriera in banca), allora Sandra si separa. Ma ancora una volta non dice al marito (come ci si aspetterebbe): “Fatti raccomandare dal tuo amico per lavorare in banca”. Semplicemente, abbandona il marito sognatore e passa (armi e bagagli) con il suo migliore amico di lui, proprio Samuele, che, tra l’altro, nel frattempo, l’ha raccomandata per rientrare nel suo vecchio lavoro di indossatrice. Nel momento della crisi, lei rivela la sua definitiva personalità narcisista ed egoista.
Il cerchio dei due egocentrismi si chiude: dopo l’iniziale ingenuità, Sandra si indurisce, rompe con le illusioni matrimoniali giovanili e si dedica solo a sé stessa ed ai suoi bisogni. Quella che inizialmente era una coppia, diventa una monade; quello che all’inizio era un matrimonio diventa un pantano di incomponibili narcisismi.
Fin qui la storia non manca di una sua coerenza e attualità. Il tutto, al netto del deja vu, al netto dell’insipida ambientazione (abbastanza approssimativa e generica), della non brillante espressività degli attori (la staticità espressiva è una costante degli attori vecchi e giovani, per quanto anche bravissimi come Lavia e Fenech).
Ma è nel passaggio dalla storia dei “protagonisti giovani” a quella dei “protagonisti anziani” che il film si inceppa definitivamente.
Come detto, la “terza età” segna il momento della riconciliazione dei Coniugi che depongono il loro narcisismo. A cosa si deve questa trasformazione? Ora, mentre l’evoluzione dall’entusiasmo giovanile al successivo disincanto della coppia sono raccontati in modo abbastanza chiaro e approfondito, la successiva evoluzione (nella terza età) dal disincanto al … re-incanto, non è altrettanto curata. E non convince.
Mi rendo conto che è odioso fare confronti, ma permettetemi di dire che ci sono storie al cinema che, in queste trasformazioni, sono assai più convincenti e toccanti. Non so se posso dare consigli, ma certo avrebbe giovato a Pupi Avati prendere spunto da certi inferni coniugali descritti da Ettore Scola. Penso ad esempio al finale de La Famiglia (1987), specie quando il protagonista Vittorio Gassman, l’arcigno barone universitario romano, Re-Sole attorno a cui ruota la famiglia, si trova solo: abbandonato dai figli che sono usciti fisiologicamente di casa (con la figlia, divorziata, ha litigato), rimasto vedovo, si sente rinfacciare dalla Cognata (Fanny Ardant): “Tua moglie sapeva che la consideravi una mezza calzetta e che amavi me. Ma è stata zitta per amore della famiglia. Senza mia sorella, la tua famiglia non sarebbe esistita”. E al Professore crolla il mondo addosso: quella sua famiglia, che lui credeva gravitasse attorno a lui, al suo prestigio, in realtà gravitava attorno alla pazienza, alla dedizione di un’umile casalinga che lui ben poco considerava. E gli crolla addosso tutto il suo narcisismo, come un castello di carte.
Gli scioglimenti elaborati da Pupi Avati per questo film, invece, sono assai discutibili e lasciano oltremodo perplessi.
Qual’è il fatto scatenante la trasformazione dei protagonisti della vecchiaia? In lei, la povertà: Sandra, infatti, rimane senza soldi e con la casa sequestrata (è lei che si è mangiata tutto? O magari sono stati uomini indegni? Nel film non si dice nulla…). Per lui … l’apparizione del Padre (dall’aldilà). Che in verità non gli dice nulla. Semplicemente, l’angelo (inteso come messaggero) gli comunica che la “buona stella” in cui lui, Marzio, ha sempre creduto finalmente si è avverata; e che ha fatto bene a vivere di speranza, ora che la moglie si è riconciliata (e ha fatto ridipingere di blu le pareti di casa, come all’inizio del loro matrimonio). E come si è potuta avverare questa magia? Semplice, perché i due Coniugi si sono incontrati nella migliore gelateria di Bologna, che non è una gelateria come un’altra ma un luogo dove i sogni si avverano… Era scritto nel destino…
Dite quello che volete: personalmente, questo scioglimento non mi persuade: mi sarei aspettato psicologia, non magia (per altro magia un tanto al chilo). Tra le due parti del film (l’una, quella dei “protagonisti giovani”, all’insegna del realismo psicologico, l’altra quella dei “protagonisti anziani”, all’insegna della “magia”) c’è un salto: un salto di conseguenzialità psicologica, di stile, di registro. Insomma, il film non è riuscito.
Ma soprattutto il film manca nell’obiettivo vero: non commuove. Due narcisi, che in fondo hanno vissuto fino a 70 anni baloccati nel loro mondo, nei loro egoismi, e che improvvisamente si ritrovano, poveri e malati per affrontare la vecchiaia insieme, non possono commuovere. Al massimo, fanno pena, il che è molto diverso. E soprattutto indispettiscono chi ha speso dai 6 agli 8 euro per seguire la loro misera storia.
POST SCRIPTUM-GLI ATTORI GABRIELE LAVIA ED EDWIGE FENECH
Il film ha fatto parlare di sé soprattutto per la prova drammatica di Edwige Fenech: un’attrice nota per altre prestazioni recitative e per altri generi cinematografici, qui alle prese (in una delle rare volte, se non la prima volta) con un film d’Autore. Ma con un copione che mostra grossi limiti nella costruzione sia dell’intreccio sia dei personaggi, gli attori fanno quello che possono. Gabriele Lavia è un grande attore; ma il suo personaggio, decisamente “teatrale” (in senso deteriore), lo costringe ad una performance enfatica, lenta, decisamente poco gradevole, ma non per colpa sua. Edwige Fenech almeno rimedia con la “sotto-recitazione” e il senso della misura (forse per l’umiltà della “novizia” alle prime armi nel cinema drammatico). Resta però un fatto: Edwige è brava, ma come (quasi) “prima volta”, avrebbe meritato di più.