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Pupi Avati, una sconfinata adolescenza

di Giorgio Frabetti

Ne La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il regista bolognese Pupi Avati ripropone la sua “maniera”.

E stanca.

Stanca perché la “maniera” è ormai “manierismo”. Come nella stucchevole sequenza in bianco e nero dell’inizio (e della fine) in cui una gelateria di Bologna viene dipinta come una sorta di “taverna degli angeli”: le bambine e i bambini in veste bianca lì radunati sono agiografia di quart’ordine, un’iconografia angiolesca trita e ritrita, da chiesa di campagna che ormai non impressiona nessuno. Almeno ai tempi della Gita Scolastica (1983), lo Spirito divino alias l’Incanto (chè, diciamolo francamente, la Gita è forse l’unico film che in fondo abbia voluto parlare della scintilla divina nella nostra vita, se non del divino stesso), era più discreto, ineffabile e forse per questo più struggente e commovente. Qui è tutto troppo esplicito, troppo urlato: dagli angeli dell’inizio, che ricordano la lentezza surreale di certi sceneggiati RAI anni ’60 all’apparizione del Padre defunto (nientemeno, non ci siamo fatti mancare l’inviato dall’aldilà nelle vesti di Cesare Bocci). Segno di un’inventiva ormai impantanata che non sa più impressionare.

E non convince.

Non convince per una ragione decisiva: stile (registro stilistico) e storia stridono: come una veste di un neonato indossato da un adulto. C’è un’incoerenza, un’inconciliabilità di fondo tra storia e “maniera” (registro, stile) del film.

Dicevo prima “maniera avatiana”. Ma cosa intendo? In estrema sintesi (chiedendo scusa per l’inevitabile generalizzazione) con “maniera avatiana” intendo una “maniera poetico-patetica” di raccontare storie al cinema. Ora, la storia di Marzio e Sandra è patetica certo ma è soprattutto … penosa. E non è poetica. Cioè (questo il mio personale giudizio) non si presta alla maniera “poetico-patetica” di Avati.

In altre parole, il film è la storia di due persone, un uomo e una donna, marito e moglie, che rimangono di fatto adolescenti almeno fino a 70 anni, combinando nella loro vita una serie di disastri, salvo ritrovarsi alla fine, quando ormai la fragilità dell’età consiglia a entrambi di unirsi per affrontare la vecchiaia.

In poche parole: due eterni adolescenti non fanno piangere. Magari li si compatisce, il che è diverso. E magari generano insofferenza: di eterni adolescenti nella vita reale ne vedi a migliaia e non hai certo voglia di spendere 6-8 euro al cinema per vederne uno, anzi due. O meglio: potresti avere la voglia di vedere un film su questo soggetto se solo fosse raccontato in modo diverso…

Ma riavvolgiamo il nastro e cominciamo dall’inizio.

“Stile del film e storia stridono”, dicevo. Cosa intendo dire? Più semplicemente questo: il “tema” del film è buono, ma non trova uno “svolgimento” adeguato e coerente nel racconto. Procediamo con ordine.

Il tema: l’adolescenza.

Come noto, l’adolescenza è quasi un’ossessione per Pupi Avati. Il regista bolognese, infatti, ha spesso dichiarato di cercare nei suoi film di ricostruire l’epoca, l’atmosfera della sua adolescenza. Un’epoca fuggita e bruciata troppo in fretta per l’urgenza del vivere (matrimonio, lavoro etc.). Non è sempre chiaro cosa Avati intenda, ma scorrendo molti suoi film (da Gita Scolastica a Festa di Laurea a Quando arrivano le ragazze etc.) notiamo come spesso i personaggi di Avati rivendichino con la cocciutaggine degli adolescenti il loro diritto di sognare e di non arrendersi davanti alla “realtà”, convinti di avere la “buona stella” dalla loro parte.

Un ulteriore rappresentante di questo mondo è indubbiamente il Marzio de La quattordicesima domenica del tempo ordinario (interpretato da Lodo Guenzi, in gioventù e Gabriele Lavia, in età avanzata). Marzio è il classico “eterno adolescente”: infatti, nonostante una vita di fallimenti, a 70 anni, rivendica ancora il diritto a sognare una vita da artista.

Avati, però, amplia la visuale. Se Marzio è l’ “eterno adolescente” per come è usualmente etichettato dalla chiacchiera corrente, gli altri personaggi in realtà non sono messi proprio meglio. Se Marzio è un eterno “consumatore” di sogni irraggiungibili, che non si converte mai alla maturità, la moglie Sandra è imprigionata nel suo mondo egoistico, anche per colpa di un matrimonio fallito che non l’ha fatta crescere come donna. Samuele, a sua volta, cerca di sfuggire dalla sindrome adolescenziale dell’amico Marzio cercando la maturità nei soldi e nella carriera, ma rimanendone tragicamente travolto. Il momento certo più straziante e commovente (soprattutto più vero) è quello in cui Samuele parla al figlio in ospedale promettendogli una fantastica gita in barca. Lui non lo sa, ma il figlio è già morto. Quando lo apprende dall’Infermiera, Samuele realizza che i suoi soldi, la sua posizione di dirigente bancario non contano nulla, non sono riusciti a salvare il figlio; e si suicida.

In questo “rapporto a tre”, Avati cerca di instillare il dubbio: “Siete ancora sicuri-sembra chiederci- che l’adolescente sia solo Marzio, l’artista fallito?”. Sì, perché “adolescente”, nel linguaggio usuale, indica chi non ha raggiunto l’età adulta, ovvero la maturità. Ma cos’è la “maturità” oggi? Avati fa bene a problematizzare quest’idea perché se c’è un’idea veramente problematica negli ultimi 40-50 anni (nel mondo occidentale) è proprio l’idea di “maturità”, ovvero di età adulta. Basti, ad esempio, scorrere le pagine di Neil Postman, sociologo americano, che nel 1982 pubblicò La scomparsa dell’età adulta. Postnam notava come la forza dell’immaginario collettivo, plasmato dai mass media e dal mondo della pubblicità, avesse sostanzialmente appiattito le tradizionali distinzioni tra giovinezza e maturità, facendo della vita delle persone sostanzialmente un’unica età … giovanile. Quando il mondo diventa tutto un indistinto emporio di merci e la realizzazione delle persone è nelle cose, nei soldi, nel potere, l’età non conta. “La maturità è tutto” diceva Shakespeare. “La maturità è niente” pare che si dica oggi, quel che conta sono i soldi. Ovvero produrre e consumare. E questa è incontestabilmente la storia di Marzio, Sandra e Samuele. Questo è il tema del film.

Il tema del film quindi tutto sommato è attuale e interessante. A essere sbagliato, invece, è … lo “svolgimento”.

Il film è di fatto diviso in due parti che si sovrappongono continuamente: il racconto del passato dove i personaggi, Marzio, Sandra, Samuele (interpretati da Lodo Guenzi, Camilla Ciraolo, Nick Russo) sono giovani; e una seconda dove i personaggi sono anziani (Gabriele Lavia, Edwige Fenech, Massimo Lopez). Il problema sta qui: le due parti non si amalgamano.

Se proprio vogliamo, la “parte” del film occupata dai “personaggi giovani” è quella sviluppata un tantino meglio. Sia chiaro: la storia è infarcita di stereotipi e di deja va avatiani (i ragazzi giovani speranze della musica, con defezione di uno che si “imbosca” in banca -vedere Jazz Band, Cinema!, Quando arrivano le ragazze…, la crisi coniugale a tre con acclusa moglie che va col migliore amico del marito, una rifrittura, questa, da Regalo di Natale e altri). La rifrittura di situazioni e temi già rivisti da Avati è almeno digeribile perché è sciolta nel realismo crudo ed efficace dei momenti migliori del regista bolognese (esempio Regalo di Natale, Ultimo minuto).

La storia dell’incontro, del matrimonio, della separazione di Marzio e Sandra è sviluppata in modo molto ordinato e circostanziato. La loro storia d’amore e di odio è in fondo la storia di due egoismi: egocentrico ed inguaribilmente sognatore lui (forse perché troppo coccolato da mammà, forse perché rimasto senza papà fin dalla tenera età), egocentrica e arrivista lei, uscita da una famiglia disgregata, dalla quale ha ricavato molta freddezza e poco calore (“Vuoi sposare mia figlia?” dice Sidney Rome che qui interpreta la parte della madre di Sandra “Sarà la tua rovina!”). Ma di un egocentrismo più complesso, la cui evoluzione possiamo seguire durante tutto il corso del film.

Notiamo una cosa: per un lungo tempo, Sandra non affligge il marito Marzio con le ramanzine che farebbero tutte le mogli davanti ad un marito ormai trentenne che cincischia con i sogni di gloria: “Smetti di vivere d’aria, trovati un lavoro”. Mai. Perché? Per il semplice motivo che Sandra è innamorata e crede ai sogni del marito: la canzone del suo duo con Samuele, i Leggenda, sfiora Sanremo e fino ad allora lei accetta le difficoltà sperando nel successo del marito. Poi tutto crolla: quando Sanremo sfuma, quando il duo Leggenda si sfalda (perché Samuele giudiziosamente rinuncia in nome della carriera in banca), allora Sandra si separa. Ma ancora una volta non dice al marito (come ci si aspetterebbe): “Fatti raccomandare dal tuo amico per lavorare in banca”. Semplicemente, abbandona il marito sognatore e passa (armi e bagagli) con il suo migliore amico di lui, proprio Samuele, che, tra l’altro, nel frattempo, l’ha raccomandata per rientrare nel suo vecchio lavoro di indossatrice. Nel momento della crisi, lei rivela la sua definitiva personalità narcisista ed egoista.

Il cerchio dei due egocentrismi si chiude: dopo l’iniziale ingenuità, Sandra si indurisce, rompe con le illusioni matrimoniali giovanili e si dedica solo a sé stessa ed ai suoi bisogni. Quella che inizialmente era una coppia, diventa una monade; quello che all’inizio era un matrimonio diventa un pantano di incomponibili narcisismi.

Fin qui la storia non manca di una sua coerenza e attualità. Il tutto, al netto del deja vu, al netto dell’insipida ambientazione (abbastanza approssimativa e generica), della non brillante espressività degli attori (la staticità espressiva è una costante degli attori vecchi e giovani, per quanto anche bravissimi come Lavia e Fenech).

Ma è nel passaggio dalla storia dei “protagonisti giovani” a quella dei “protagonisti anziani” che il film si inceppa definitivamente.

Come detto, la “terza età” segna il momento della riconciliazione dei Coniugi che depongono il loro narcisismo. A cosa si deve questa trasformazione? Ora, mentre l’evoluzione dall’entusiasmo giovanile al successivo disincanto della coppia sono raccontati in modo abbastanza chiaro e approfondito, la successiva evoluzione (nella terza età) dal disincanto al … re-incanto, non è altrettanto curata. E non convince.

Mi rendo conto che è odioso fare confronti, ma permettetemi di dire che ci sono storie al cinema che, in queste trasformazioni, sono assai più convincenti e toccanti. Non so se posso dare consigli, ma certo avrebbe giovato a Pupi Avati prendere spunto da certi inferni coniugali descritti da Ettore Scola. Penso ad esempio al finale de La Famiglia (1987), specie quando il protagonista Vittorio Gassman, l’arcigno barone universitario romano, Re-Sole attorno a cui ruota la famiglia, si trova solo: abbandonato dai figli che sono usciti fisiologicamente di casa (con la figlia, divorziata, ha litigato), rimasto vedovo, si sente rinfacciare dalla Cognata (Fanny Ardant): “Tua moglie sapeva che la consideravi una mezza calzetta e che amavi me. Ma è stata zitta per amore della famiglia. Senza mia sorella, la tua famiglia non sarebbe esistita”. E al Professore crolla il mondo addosso: quella sua famiglia, che lui credeva gravitasse attorno a lui, al suo prestigio, in realtà gravitava attorno alla pazienza, alla dedizione di un’umile casalinga che lui ben poco considerava. E gli crolla addosso tutto il suo narcisismo, come un castello di carte.

Gli scioglimenti elaborati da Pupi Avati per questo film, invece, sono assai discutibili e lasciano oltremodo perplessi.

Qual’è il fatto scatenante la trasformazione dei protagonisti della vecchiaia? In lei, la povertà: Sandra, infatti, rimane senza soldi e con la casa sequestrata (è lei che si è mangiata tutto? O magari sono stati uomini indegni? Nel film non si dice nulla…). Per lui … l’apparizione del Padre (dall’aldilà). Che in verità non gli dice nulla. Semplicemente, l’angelo (inteso come messaggero) gli comunica che la “buona stella” in cui lui, Marzio, ha sempre creduto finalmente si è avverata; e che ha fatto bene a vivere di speranza, ora che la moglie si è riconciliata (e ha fatto ridipingere di blu le pareti di casa, come all’inizio del loro matrimonio). E come si è potuta avverare questa magia? Semplice, perché i due Coniugi si sono incontrati nella migliore gelateria di Bologna, che non è una gelateria come un’altra ma un luogo dove i sogni si avverano… Era scritto nel destino…

Dite quello che volete: personalmente, questo scioglimento non mi persuade: mi sarei aspettato psicologia, non magia (per altro magia un tanto al chilo). Tra le due parti del film (l’una, quella dei “protagonisti giovani”, all’insegna del realismo psicologico, l’altra quella dei “protagonisti anziani”, all’insegna della “magia”) c’è un salto: un salto di conseguenzialità psicologica, di stile, di registro. Insomma, il film non è riuscito.

Ma soprattutto il film manca nell’obiettivo  vero: non commuove. Due narcisi, che in fondo hanno vissuto fino a 70 anni baloccati nel loro mondo, nei loro egoismi, e che improvvisamente si ritrovano, poveri e malati per affrontare la vecchiaia insieme, non possono commuovere. Al massimo, fanno pena, il che è molto diverso. E soprattutto indispettiscono chi ha speso dai 6 agli 8 euro per seguire la loro misera storia.

POST SCRIPTUM-GLI ATTORI GABRIELE LAVIA ED EDWIGE FENECH

Il film ha fatto parlare di sé soprattutto per la prova drammatica di Edwige Fenech: un’attrice nota per altre prestazioni recitative e per altri generi cinematografici, qui alle prese (in una delle rare volte, se non la prima volta) con un film d’Autore. Ma con un copione che mostra grossi limiti nella costruzione sia dell’intreccio sia dei personaggi, gli attori fanno quello che possono. Gabriele Lavia è un grande attore; ma il suo personaggio, decisamente “teatrale” (in senso deteriore), lo costringe ad una performance enfatica, lenta, decisamente poco gradevole, ma non per colpa sua. Edwige Fenech almeno rimedia con la “sotto-recitazione” e il senso della misura (forse per l’umiltà della “novizia” alle prime armi nel cinema drammatico). Resta però un fatto: Edwige è brava, ma come (quasi) “prima volta”, avrebbe meritato di più.

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Azzurro Tenebra

Ombre lunghe della sera, vapori di nebbia che si alzano da terra, un uccello notturno che passa veloce e disperde il suo richiamo lugubre in lontananza, mentre un castello, che rimanda a fasti passati, ma che somiglia sinistramente ad una clinica psichiatrica, si staglia sullo sfondo, circondato da poliziotti armati. Il tutto avvolto in un’atmosfera di ineluttabile disfatta, da ultimi giorni dell’Impero. E’ questa la cornice attorno al ritiro della Nazionale italiana di calcio alla vigilia del mondiale tedesco del 1974, nella descrizione che ne fa Giovanni Arpino in uno dei suoi romanzi più famosi, Azzurro Tenebra, del 1977.

Arpino, in quell’inizio d’estate del ’74, non è soltanto l’inviato di punta della pagina sportiva del quotidiano La Stampa di Torino, il principe dei giornalisti sportivi dell’epoca, insieme a Gianni Brera. E’ anche uno scrittore di successo, vincitore del Premio Strega nel 1964, alle spalle decine tra romanzi, racconti e raccolte di poesie, scoperto da Elio Vittorini e cresciuto all’ombra della Scuola Einaudiana dei primi anni del secondo dopoguerra, al pari di Fenoglio e Calvino. Un intellettuale prestato al calcio, anzi, alla Sferomachìa, come raramente capita oggi di vedere.

Al Mondiale del 1974, l’Italia si presenta come una delle favorite. Siamo vicecampioni del mondo e pochi mesi prima una rete di Capello ci ha regalato il primo storico successo a Wembley contro l’Inghilterra. Zoff non prende gol da oltre mille minuti e in Germania i tantissimi emigrati aspettano una Nazionale che possa tornare ad alzare la coppa del mondo dopo l’ultima volta a Parigi nel 1938, un’era geologica prima. In realtà, quella è una squadra fisicamente e moralmente a pezzi, con i “messicani” a fine corsa e uno spogliatoio spaccato in due, tra il blocco delle grandi squadre del nord e quello della Lazio campione d’Italia. Una rottura che si manifesta chiaramente nel famoso gesto con cui Chinaglia, sostituito da Anastasi al minuto sessantanove del sofferto match d’ esordio contro il non irresistibile Haiti, manda a quel paese il Commissario Tecnico, Ferruccio Valcareggi.

In Azzurro Tenebra, Arpino utilizza il calcio e quella Nazionale attraversata da divisioni fratricide come metafora dell’Italia degli anni settanta, un paese frantumato come uno specchio rotto, sospeso tra bombe, repressione e voglie di golpe. Un paese popolato da  Jene e Belle Gioie e dove gli uomini, con la U maiuscola, si contano sulle dita di una mano. Soltanto tre i personaggi positivi del romanzo, Giacinto Facchetti, “Mon Capitaine” <<lo sguardo limpido di celesti distanze, e quel sorriso gentile, chiuso agli angoli della bocca da due brevi rughe incise>>, al cui figlio Gianfelice, nato pochi mesi dopo la disfatta tedesca, Arpino fece da padrino di battesimo; Dino Zoff, alias San Dino e, soprattutto, il Vecio, Enzo Berzot, che in quel disgraziato mondiale era il vice di Valcareggi.

Di Bearzot Arpino era grande amico ed estimatore, lo considerava un italiano atipico, come tutti gli italiani di frontiera. E proprio Bearzot fu la pietra dello scandalo che provocò il famoso litigio tra lo scrittore piemontese e Brera, il Grangiuàn del romanzo, come ricorda Gigi Garanzini, biografo ufficiale di Bearzot, in quel gioiellino che è Il romanzo del Vecio. Arpino era un bearzottiano della prima ora, mentre Brera, teorico del catenaccio, considerava il tecnico friulano un eretico, a causa della sua predilezione per il calcio totale olandese ed i giocatori eclettici. A nulla valse la mediazione dello stesso Bearzot, i due rimasero in ottimi rapporti con lui, ma quella diatriba, fondata su un puntiglio apparentemente incomprensibile per due personalità di quel livello, se la portarono nella tomba.   

In Azzurro Tenebra si possono scorgere anche le avvisaglie della degenerazione del calcio moderno. Quelli del 1974 sono i primi mondiali di Joao Havelange. Con lui alla presidenza della Fifa ebbe inizio la commercializzazione sempre più spinta del “prodotto” calcio. Una rivoluzione antropologica, per usare un’espressione di un altro intellettuale con la passione per il football, Pier Paolo Pasolini, che portava con sé i frutti avvelenati del divismo e delle pressioni sempre più esasperate che gli enormi interessi economici rendevano inevitabili. Come Arpino fa dire al  Vecio: <<Se penso quando giocavo io,  e non era un secolo fa. Solo due generazioni, anzi, due leve, prima di questi divetti. Tutto era più rozzo, c’erano i nervi ma contavano come la pancia, la voglia, l’ignoranza. Te l’ho detta di quel portiere che dormiva nella mia camera e di notte si allenava al buio a far la firma per essere svelto con gli autografi? Le bestie che eravamo. Però uomini>>. Oppure, la paradossale scena, a metà strada tra l’assalto ai forni di manzoniana memoria e la rotta di Caporetto, delle cravatte e delle forme di grana lanciate dalle finestre del castello in cui è asserragliata la Nazionale, per ammansire i tifosi inferociti dopo la sconfitta contro la Polonia di Lato e Deyna, che sancisce la nostra ingloriosa eliminazione al primo turno.

Ma la parte, forse, più bella del romanzo è il racconto delle partite. Un turbinio di gesti atletici, immagini, colori, suoni, che sembrano trascinare il lettore dentro la bolgia del Neckarstadion, lo stadio di Stoccarda che ospitò i match dell’Italia. Arpino ha la capacità, propria solo ai grandi scrittori, di isolare, dentro al caos di una incontro di calcio, circondati e minacciati dalla folla dei tifosi, un’indistinta onda nera che muggisce carica di rabbia e di odio, i caratteri dei singoli individui, strappandoli dal quadro d’insieme e presentandoli come singole figure tridimensionali. <<Così Arp vide il Bomber (Gigi Riva, n.d.a.). Schiumava di queste impotenze nei pochi centimetri della sua verde porzione di scacchiera. Ruotò, il Bomber, dilaniandosi nel vuoto. Perse palla e cadde: furono quintali di malinconia quelli che in lui cercarono, tra il silenzio del Neckarstadion, di rimettersi in piedi: perché è lì, quando ti devi rialzare, che ti azzanna la solitudine>>. Una potenza descrittiva che, rapportata ad un grande evento sportivo, si ritrova forse solo nel racconto che Norman Mailer fa dell’epocale Rumble in the jungle, il leggendario incontro di boxe tra Alì e Foreman a Kinshasa, sempre in quel fatidico 1974.

<<Il pallone permette di dire il novanta per cento della verità.

E il dieci restante?

Carità umana, solo carità>>

La storia del pallone che ha cambiato il calcio

Per i calciatori, quella dei capelli e delle relative acconciature non è una moda soltanto dei giorni nostri. Leggende ormai secolari raccontano di come, per non rovinare la capigliatura sistemata con generose dosi di brillantina, l’ Artillero Pedro Petrone, formidabile bomber del Grande Uruguay che, tra il 1924 e il 1930, vinse due volte il torneo olimpico e la prima edizione del Campionato del Mondo giocata a Montevideo, non colpisse mai la palla di testa. O di come l’ Anzlein Angelo Schiavio, centravanti del Bologna di Arpad Veisz, lo “Squadrone che tremare il mondo fa” che nel 1937 vinse a Parigi, contro i maestri inglesi del Chelsea, il Torneo dell’Esposizione, e che fece innamorare il giovane Pasolini, raccogliesse i capelli impomatati all’interno di una retìna, per evitare che si scomponessero troppo al contatto col pallone.

Già, perché il pallone con cui si giocava ai tempi di Petrone e di Schiavio non era quell’oggetto iper tecnologico, frutto di ricerche di laboratorio sui materiali e, per la verità, dalle traiettorie instabili ed imprevedibili di oggi, ma era composto da una camera d’aria di gomma, gonfiata soffiando e ricoperta da un involucro di dodici strisce di cuoio non impermeabili, tenute insieme da una cucitura esterna di cinque millimetri, che chiudeva la “bocca” attraverso cui passava la camera, secondo l’invenzione dell’americano Charles Goodyear. Un oggetto non propriamente sferico, che, quando pioveva, diventava una pietra e che, al contatto della testa con la cucitura, provocava ferite piuttosto dolorose.

Nella seconda metà dell’ottocento, la pampa era un’enorme distesa di terra disabitata. Per favorirne lo sviluppo, il governo argentino, tramite una notevole campagna propagandistica svolta dai consoli e da agenti speciali appositamente incaricati, attirò dall’Europa, col miraggio di vastissime terre fertili da coltivare, decine di migliaia di coloni, in buona parte italiani e, tra questi, moltissimi friulani, anticipando loro le spese per il viaggio, l’abitazione nonché per gli animali e gli strumenti da lavoro. Dopo il boom degli anni ottanta del diciannovesimo secolo, le partenze dal Friuli iniziarono a diradarsi e cambiò anche il tipo di emigrazione: non più coloni affamati di terra, ma operai in cerca di occupazione nelle fabbriche delle grandi città argentine, Buenos Aires, Rosario e Cordoba. Probabilmente, di questa seconda ondata di emigranti facevano parte Olivo Tossolini e Maria Zampa, partiti da Felettano di Tricesimo, e Antonio Polo e Caterina Tonello da Forni di Sotto, paesi della provincia di Udine e arrivati, più o meno nello stesso periodo, a Bell Ville, cittadina della provincia di Cordoba.

Di solito, quando si parla di grandi rivoluzionari del calcio, si pensa ad allenatori o calciatori che hanno cambiato il modo di pensare e praticare il gioco. Si pensa, tra gli altri, a Rinus Michels e Johan Cruijff e alla Grande Olanda del Calcio Totale, oppure ad Arrigo Sacchi e al suo meraviglioso Milan olandese, o, per arrivare ai nostri giorni, a Pep Guardiola e al Barcellona. Non si tiene conto, però, del fatto che anche questi grandi innovatori ben poco avrebbero potuto innovare se, a monte, non ci fosse stato qualcuno ancora più visionario di loro a mettergli a disposizione lo strumento più adatto ad esprimere il loro genio, ossia il pallone. Non, però, quello dei tempi di Petrone e di Schiavio, dalla forma irregolare e così doloroso all’impatto, ma il progenitore del pallone moderno.

Ad inventarlo furono, proprio a Bell Ville, Antonio Tossolini, figlio di Olivo e Maria, e Luis Polo, figlio di Antonio e Caterina. Luis giocava a calcio nel Club Argentino, una delle cinque squadre della città e la sua specialità erano i gol di testa, dopo ognuno dei quali, oltre alla gioia di aver segnato, portava sulla fronte i segni della stringa di cuoio che chiudeva la bocca del pallone. Un giorno del luglio del 1930, ascoltando la radiocronaca di una partita del Mondiale uruguaiano, sentì un commentatore dire che bisognava <<tagliare il bubbone alla palla, perché provocava inconvenienti ai giocatori, come pure alla direzione del tiro>>. Era quello che pensava anche Luis e subito pose il problema all’amico Antonio, ben conoscendo la sua genialità di inventore, dato che aveva alle spalle già numerosi brevetti per rendere più facile il lavoro di carpenteria nell’officina di famiglia.

I due, insieme a Juan Valbonesi, operaio di origini piemontesi dell’officina di Tossolini, si misero subito al lavoro e, per prima cosa, risolsero il problema principale, ossia come gonfiare la camera d’aria: non più attraverso una “proboscide” da ripiegare, ma una valvola in cui immettere l’aria da un ago, immobilizzando, poi, la camera dentro il guscio di cuoio, in modo che l’ago non andasse a forarla. Togliendo l’ago, la valvola si contraeva all’interno, richiudendosi. C’era, poi, il problema della “bocca” del pallone, che venne risolto con la cucitura interna delle tacche esagonali che formavano l’involucro di cuoio, anziché quella esterna con la stringa fino allora utilizzata.

Nasceva, così, nel 1931, il Superball, perfettamente sferico e facilmente gonfiabile. Nel 1935 la federcalcio brasiliana lo adottò come pallone ufficiale, mentre nel 1937, benché già utilizzato ufficiosamente su tutti i campi, anche la federazione argentina lo introdusse nei i propri campionati. Come scrive Eduardo Galeano in Splendori e miserie del gioco del calcio, <<…grazie all’ingegno di Tossolini, Valbonesi e Polo, tre argentini di Cordoba, nacque… il pallone senza cuciture. Inventarono la camera con valvola che si gonfiava per iniezione, e dal Mondiale del 1938 fu possibile colpire di testa>>.

Una volta brevettata la loro invenzione, per la produzione su larga scala del Superball, Tossolini, Polo e Valbonesi crearono a Bell Ville la Superball, fabbrica che, al massimo del suo splendore dava lavoro, oltre che a 170 dipendenti diretti, a un indotto di circa tremila persone, che cucivano i palloni a domicilio.

Oggi, a mantenere vivo il ricordo di quella straordinaria epopea, ci pensa Mabel Bunzli, nativa di Bell Ville e nipote di Antonio Tossolini, da tempo residente a Lonca di Codroipo. Il 9 ottobre scorso, prima della partita tra Udinese e Atalanta, nell’auditorium della Dacia Arena, si è tenuto un incontro dal titolo Il pallone che ha cambiato il calcio, alla presenza, oltre che di Mabel, di Carlo Briner, sindaco di Bell Ville, di German Fuglini, titolare della fabbrica Dalemas Pelotas, azienda che ha comprato il marchio Superball per continuarne la produzione, e di Flavio Vidoni, giornalista locale, tra i primi a raccontare questa storia. Non ha voluto far mancare il suo saluto, attraverso una videoregistrazione, nemmeno Mario Kempes, il campione che trascinò coi suoi gol l’ Argentina alla vittoria della Coppa del Mondo del 1978 e che, come Mabel di cui è grande amico, è nato a Bell Ville. E’ stato un bel modo per ricordare come un’invenzione così importante per il gioco del calcio abbia un legame forte con la terra friulana e fa bene l’ Udinese a cercare storie come queste, legate al territorio, da raccontare in maniera non banale.

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Film: Ultimo Minuto

Di film realmente riusciti sul mondo del calcio ne ricordo pochi, meno di una manciata. L’ argomento non è dei più semplici, si tratta di penetrare in un mondo chiuso, che all’esterno mostra solo l’effimero luccichìo di un’ immagine stereotipata. Non è un caso se, almeno in Italia, gli unici film che hanno avuto un certo successo sono quelli che lo hanno affrontato in chiave grottesca, come Il Presidente del Borgorosso Footbal Club, del 1970, con Alberto Sordi, o il celeberrimo L’Allenatore nel Pallone, del 1984, in cui un Lino Banfi particolarmente in forma ha reso immortale la maschera stralunata di Oronzo Canà, allenatore dalle idee particolarmente originali, pare ispirato alla reale figura di Oronzo Pugliese.

Due film, invece, hanno cercato di scavare più a fondo e, forse per questo, non hanno avuto il successo che meritavano. Uno è l’esordio alla regia del premio oscar Paolo Sorrentino, L’Uomo in più, del 2001, in cui il regista affronta il delicato passaggio dalla carriera agonistica alla vita “normale”, con quel senso di vuoto così difficile da riempire per chi ha vissuto sotto i riflettori e che tanti calciatori, anche in tempi recenti, ha messo in crisi. La figura di Antonio Pisapia, il protagonista del film di Sorrentino, anche per la tragica fine che fa, è ispirata ad Agostino Di Bartolomei, il grande capitano della Roma di Liedholm, suicidatosi il 30 maggio 1994, esattamente dieci anni dopo la sconfitta contro il Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni del 1984.

L’altro film, forse il più interessante, e che, al pari de L’Uomo in più, ha goduto di scarso successo, è Ultimo Minuto, una vivisezione crudele e assolutamente veritiera del mondo del calcio, con la sua corruzione, i suoi rapporti clientelari e il suo sottobosco, formato da un’ umanità tanto dolente quanto spietata. Ultimo Minuto è un film di Pupi Avati del 1987, per la scrittura del quale il regista bolognese si è avvalso della collaborazione dei giornalisti Italo Cucci e Michele Plastino e che è nobilitato dall’ interpretazione straordinaria di Ugo Tognazzi, capace di dare vita, sangue e anima al personaggio dell’ avvocato Walter Ferroni, General Manager di una piccola squadra di provincia, abituata a salvarsi all’ultima giornata di Serie A grazie più agli intrallazzi del suo direttore che ai meriti di un allenatore incapace, che rimane al suo posto solo per il fatto di essere una vecchia gloria del passato.

Dopo aver sacrificato vita, affetti familiari e sostanze per il bene della squadra, Ferroni viene estromesso dal suo ruolo dal nuovo rampante presidente, interpretato da Lino Capolicchio, recentemente scomparso, uno dei tanti attori “feticcio” di Pupi Avati che compaiono nel film, simbolo di un calcio che, alla passione, va sostituendo il potere del denaro, nella convinzione che una società calcistica possa essere gestita come un qualunque asset finanziario. Ma ai primi risultati negativi, gli stessi tifosi che avevano salutato con entusiasmo l’arrivo del ricco presidente, gli si rivoltano contro, costringendolo a richiamare il vecchio Ferroni, che, per prima cosa, riporta in squadra Boschi (Massimo Bonetti), campione sul viale del tramonto, di cui sua figlia (interpretata da una giovanissima Elena Sofia Ricci) è innamorata. Nella partita del suo ritorno, però, Boschi tradisce la fiducia del general manager, accettando denaro da dei faccendieri per combinare il risultato. Sarà il diciassettenne Paolo Tassoni, giovane promessa scoperta dal talent scout Duccio Venturi (Diego Abatantuono) a salvare Ferroni, segnando il gol della vittoria contro l’Avellino all’ ultimo minuto. E mentre la folla festeggia, Ferroni, estenuato, resta inchiodato alla panchina, in un’ immagine di straordinaria solitudine a cui Tognazzi riesce a dare una verità commovente.

Ultimo Minuto fu uno degli ultimi film di Tognazzi, un progetto al quale l’attore aveva creduto molto, ma che non ebbe il successo sperato. Anni dopo Italo Cucci disse che la figura dell’avvocato Ferroni era ispirata un pò ad Italo Allodi, il general manager della Grande Inter di Angelo Moratti, un pò al primo Luciano Moggi. Visto a distanza di trentacinque anni, il film di Pupi Avati lascia un velo di nostalgia: oggi figure come quelle dell’avvocato Ferroni non vestono più impermeabili scoloriti, non vivono in stanze di alberghetti di ultima, non viaggiano più su treni di seconda classe per andare a pietire un favore a un dirigente amico o per scovare un talento in provincia, ma usano lo slang degli uomini d’affari, salgono su macchine di lusso e il loro tratto distintivo è la volgarità degli arricchiti.

Ci vorrebbe qualcuno che scrivesse un soggetto per un film su questo mondo di nuovi mostri, ma temo che si tradurrebbe in una farsa. Un pò com nel finale di Boris- Il Film, dove il soggetto di denuncia tratto da La Casta, il libro di Rizzo e Stella, finisce per trasformarsi nel più becero dei cine panettoni. Perchè, forse, è questo che ci meritiamo.

Il Dottore e la squadra del Popolo

«Nessun uomo può emanciparsi altrimenti che emancipando tutti gli uomini che lo circondano».

Probabilmente aveva letto questa frase di Bakunin o, data la passione per gli studi classici trasmessagli dal padre, ‘La Repubblica’ di Platone, del cui protagonista portava il nome. Fatto sta che Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti solo Sócrates, è passato alla storia, oltre che come un grande e raffinatissimo calciatore, anche per essere stato l’artefice di quella curiosa e straordinaria utopia applicata al calcio che è passata alla storia come Democracia Corinthiana.

Siamo agli inizi degli anni Ottanta del Novecento, il Brasile, da quasi vent’anni, si trova sotto il tallone di ferro della dittatura militare, una delle tante che in quegli anni insanguinavano il Sudamerica, col beneplacito e la complicità degli Stati Uniti. Da poco si erano conclusi i Mondiali d’ Argentina, forse l’edizione più controversa, spudoratamente strumentalizzata dalla giunta golpista del generale Videla per darsi una facciata di rispettabilità agli occhi del mondo, mentre nelle prigioni di Buenos Aires migliaia di oppositori politici venivano torturati e fatti sparire. In questo contesto politico, nel 1981 a San Paolo, la città più importante del Brasile dopo Rio de Janeiro, si assiste a un avvenimento apparentemente insignificante: terminato il suo mandato, Vicente Mateos lascia la presidenza del Corinthians a Waldemar Pires. Il Corinthians, da tutti conosciuto come Timão, è una delle squadre più importanti del Brasile: la squadra del popolo, fondata nel 1910 da calzolai e muratori, che si contrappone alle altre due squadre della città, il San Paolo, che rappresenta la ricca borghesia, e il Palmeiras, squadra della comunità italiana. Come responsabile organizzativo del club, Pires nomina Adilson Monteiro Alves, un giovane sociologo dalle idee rivoluzionarie, che ribalta il luogo comune consolidato secondo cui una squadra di calcio deve essere governata da un uomo solo al comando, sia esso l’allenatore o, più spesso, il presidente. Alla gestione del club avrebbero partecipato tutti, dai giocatori all’allenatore, dai magazzinieri all’ultima delle maschere che vendevano i biglietti allo stadio e il voto di ognuno avrebbe avuto lo stesso valore. In questo modo si decidevano gli orari degli allenamenti e dei pasti, la squadra da mettere in campo e i giocatori da acquistare e vendere. Era l’inizio della Democracia Corinthiana.

Naturalmente, questo esperimento sociologico non avrebbe potuto avere il successo che ebbe se non fossero esistite alcune figure di spicco all’interno di quello spogliatoio, tre grandi calciatori dotati anche di una coscienza politica particolarmente forte: Wálter Casagrande, che poi ebbe una buona carriera in Italia, giocando con Ascoli e Torino, Wladimir Rodrigues do Santos che, terminata la carriera di calciatore lavorò come sindacalista e, soprattutto, lui, O Doutor, Sócrates.

Sócrates è stato un intellettuale prestato al calcio. La sua eccentricità era ben rappresentata anche dal suo fisico, dato che era alto oltre un metro e novanta, ma portava il trentasette di scarpe. Giocatore dotato di una tecnica straordinaria, considerava il calcio una forma d’arte e affermava: «Noi calciatori siamo artisti, e gli artisti sono gli unici lavoratori che hanno più potere dei loro capi». In realtà, il calcio era solo uno dei suoi innumerevoli interessi: laureato in medicina, a quella dei suoi colleghi preferiva la compagnia di scrittori, poeti e musicisti, con cui amava discutere a lungo, specie di notte, meglio se la discussione veniva accompagnata da bevute epocali. Con lui, Casagrande e Wladimir Rodrigues in campo e quella sorta di anarchia ordinata a reggere tutto, il Corinthians tornò a vincere dopo anni di bocconi amari, conquistando due volte il campionato paulista nel 1982 e nel 1983. Sulle maglie, i calciatori portavano scritte provocatorie inneggianti alla democrazia e alla libertà e durante la finale del campionato del 1983, giocata contro i rivali cittadini del San Paolo, scesero in campo reggendo uno striscione con su scritto ‘Vincere o perdere, ma sempre con Democrazia’.

Nel 1984, amareggiato per la bocciatura della proposta di legge che reintroduceva il suffragio universale e l’elezione diretta del Presidente, Sócrates lasciò il Brasile e se ne andò in Italia, alla Fiorentina. Finiva, così, con l’intransigenza delle scelte importanti, la Democracia Corinthiana. Ebbe, però, modo di raccogliere, sia pure da lontano, i frutti di quella che fu anche una sua battaglia solo un anno più tardi, nel 1985, quando la giunta militare, ormai irrimediabilmente indebolita, cadde e il Brasile tornò ad essere uno stato democratico. Nel frattempo, due anni prima, come conseguenza dell’assurda Guerra delle Malvinas, era crollato il regime militare argentino, mentre nel 1988 cadeva anche la dittatura di Pinochet in Cile, a seguito di un referendum popolare, come descritto anche in un bel film di Pablo Larraín.

L’unicità di Sócrates è dimostrata anche da altri due episodi. Quando, al suo arrivo in Italia, alcuni giornalisti gli chiesero chi, tra Mazzola e Rivera, fosse l’italiano che stimasse di più, lui rispose, serafico: «Non li conosco. Sono qui per leggere Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio». Nel 1983 aveva confessato che il suo desiderio più grande era quello di morire di domenica, con il Corinthians campione. E, come per un incantesimo magico, la sua profezia si avverò il 4 dicembre del 2011, quando il suo fisico, fiaccato dall’alcol e dalle troppe sigarette, lo abbandonò proprio di domenica, la sera in cui il Timão festeggiava la vittoria nel campionato paulista. Allo stadio Pacaembu di San Paolo, prima del derby col Palmeiras, i giocatori e i tifosi del suo Corinthians lo salutarono nell’unico modo possibile, con il pugno chiuso levato verso il cielo, alla maniera in cui O Doutor, un uomo che si era battuto per l’emancipazione di tutti gli uomini, festeggiava per un gol.

Dal Danubio al Brasile, le radici dell’ Hajduk Spalato

Percorrendo la costa della Dalmazia, da Spalato fin giù a Dubrovnik, una cosa, più di ogni altra, colpisce la curiosità del viaggiatore: praticamente non c’è muro, ponte o porticciolo che non riporti scritte inneggianti all’Hajduk, la pincipale squadra di calcio spalatina. Non si tratta di semplici scritte sui muri, ma di vere e proprie opere di street art, che si trovano anche all’ingresso delle gallerie autostradali, il che fa nascere, anche nell’osservatore meno attento, il sospetto che ci sia un legame un po’ più che viscerale tra la meravigliosa Spalato e la sua squadra di calcio.

Nell’estate del 1950, un gruppo di marinai dell’isola di Korcula raggiunse le coste del Brasile, proprio nel pieno svolgimento dei campionati del mondo. Qui assistettero a numerose partite della nazionale di casa, compresa quella, drammatica, contro l’Uruguay, passata alla storia come Maracanazo. Ciò che più li colpì, fu la passione con cui i tifosi brasiliani seguivano la loro squadra e, di ritorno in patria, decisero di riprodurre quel modello. Il 29 ottobre di quello stesso anno, durante una partita contro gli odiati rivali della Stella Rossa, lo stadio dell’Hajduk, che allora era ancora il vecchio Stari Plac, si riempì di tamburi e bandiere e un’atmosfera chiassosa ed entuasiasta accompagnò la squadra fino alla vittoria. Quel giorno nasceva la Torcida, la prima tifoseria organizzata d’Europa, che, anche nel nome, riannodava quel filo rosso che lega, sia dal punto di vista tecnico che sentimentale, il calcio della ex Jugoslavia a quello brasiliano. Non è un caso se la nazionale plava, finchè è esistita, fosse soprannominata “Il Brasile d’Europa”. Fin dalla sua nascita, la Torcida subì l’ostilità del regime titino, che mal tollerava forme di associazzionismo che non fossero ad esso riconducibili. I suoi capi furono espulsi dal partito comunista e in alcuni casi incarcerati, ma, nonostante l’opposizione del regime, fu proprio a Spalato, nel nuovo stadio Poljud, il bellissimo stadio dell’Hajuduk che si affaccia, come una terrazza, sul mar Adriatico, che il 4 maggio 1980, durante un importante Hajduk- Stella Rossa, venne dato l’annuncio dall’altoparlante della morte del Maresciallo Tito. La partita venne sospesa e tutti, giocatori, arbitro e pubblico si unirono in un pianto collettivo, forse presagio della dissoluzione che, di lì a poco, avrebbe travolto la Jugoslavia.

Ancora oggi, la Torcida è un punto di riferimento per la cittadinanza di Spalato: le sue attività non si esauriscono al tifo da stadio, ma interessano anche forme di assistenza alla comunità, tutte finanziate dalle sovvenzioni dei soci. Politicamente, la tifoseria organizzata dell’Hajduk ha una forte connotazione nazionalistica, nulla di paragonabile, però, ai Bad Blue Boys, i loro omologhi della Dinamo Zagabria, quelli che, per intenderci, insieme ai Deljie della Stella Rossa guidati da Zeljiko Raznatovic, meglio noto come comandante Arkan, diedero vita, il 13 maggio del 1990, agli scontri dello stadio Maksimir, da molti considerati l’antipasto della guerra civile.

L’Hajduk ha un’origine curiosa: pur essendo espressione della principale città della Dalmazia, non nasce a Spalato, ma a Praga, nel 1911, nella birreria U Fleku, per iniziativa di un gruppo di studenti spalatini che avevano assitito a una partita tra lo Slavia e lo Sparta ed erano rimasti incantati da quel mix di eleganza, forza fisica e deliziosi virtuosismi tecnici che, all’epoca, andava sotto il nome di calcio danubiano. Era normale, allora, per i rampolli della borghesia dalmata, studiare nelle principali città dell’Impero Austro- Ungarico, di cui la Dalmazia era parte integrante. Come nome si scelsero Hajduk, termine dall’origine incerta, probabilmente utilizzato dai turchi per definire gli antichi guerriglieri balcanici che si opponevano alla dominazione ottomana, gli hayduk, i banditi. E una spiccata coscienza di “opposizione” è una caratteristica che i “Banditi” di Spalato si sono sempre trascinati nel corso della loro storia: nel 1930, i giocatori dell’Hajduk, insieme a quelli di altre squadre croate, boicottarono il campionato del Regno di Jugoslavia, in segno di protesta contro quella che consideravano la dittatura di Belgrado. Durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’occupazione italiana, l’Hajduk preferì sciogliersi piuttosto che partecipare alla Serie A. Ancora, nel 1944, giocatori e staff tecnico si unirono al gruppo di partigiani jugoslavi con base sull’isola di Lissa, divenendo la squadra di calcio ufficiale dell’esercito di liberazione jugoslavo. Anche per questi meritici “politici” l’Hajduk fu l’unica società calcistica che non subì il repulisti successivo alla nascita della Repubblica Federale Jugolsava, potendo conservare la propria gloriosa tradizione.

Calcisticamente, il punto più alto i Banditi lo raggiunsero negli anni settanta, sotto la guida tecnica di Tomislav Ivic. In realtà, le radici di Ivic non affondano nella storia dell’Hajduk, ma in quella della seconda squadra di Spalato, l’RNK, la squadra dei portuali, fondata nel 1912 da un gruppo di giovani anarchici e chiamata, inizialmente, Anarh. E’, probabilmente, per queste origini operaie e popolari che il calcio che Ivic praticava all’Hajduk venne definito “industriale”, la variante dalmata al calcio totale olandese (Ivic allenò anche per un paio di stagioni all’Ajax). Con Ivic in panchina, l’Hajduk vinse due campionati di Jugoslavia e altrettante coppe nazionali, raggiungendo due volte i quarti di finale di Coppa dei Campioni e una volta le semifinali di Coppa delle Coppe. C’era anche Ivic, in lacrime sul prato del Poljud,  quel 4 maggio 1980, il giorno della morte di Tito.

Quel periodo d’oro non si è più ripetuto nella storia dell’Hajduk, dal cui vivaio, come da tutti i fertilissimi vivai delle squadre della ex jugoslavia, sono usciti campioni come Alen Boksic, originario di Makarska, piccolo borgo marinaro a pochi chilometri dalla grande Spalato, o Ivan Juric, l’attuale allenatore del Torino. L’ ultimo titolo croato vinto dagli spalatini risale, ormai, al lontano 2005. Da allora il campionato è un monologo dell’odiata Dinamo Zagabria, con l’unica, sorprendente vittoria del piccolo Rijeka nel 2017. Ma, scendendo dal Palazzo di Diocleziano verso il porto e la periferia, fino ad arrivare allo stadio Poljud, oppure percorrendo le strade della costa dalmata, i segni della passione “brasiliana” dei tifosi restano intatti, perché l’Hajduk è “Dalmatinski ponos”, “l’orgoglio della Dalmazia”.  

Contro la Superlega: il modello tedesco e il caso St. Pauli

Il recente caso della Superlega, progetto nato e abortito nello spazio di una notte (anche se di un campionato d’elité tra top club europei, sganciato dalle federazioni nazionali e internazionali si parla da tempo) è l’ennesima occasione persa per un dibattito serio e approfondito sulla struttura delle società di calcio. Anche dell’iniziativa di azionariato popolare legata all’Inter, lanciata qualche settimana fa da Carlo Cottarelli ed Enrico Mentana, si è parlato soprattutto per aspetti legati alla partecipazione di tifosi vip e non per altro.

Eppure, discutere di come strutturare il controllo dei club sarebbe fondamentale particolarmente oggi che, a causa della crisi economica legata al Covid, anche le proprietà multinazionali apparentemente più solide vacillano, e ci sarebbe l’ opportunità per i tifosi di riappropriarsi dell’oggetto della loro passione, ristabilendo una connessione di senso con i colori e i simboli della propria squadra del cuore.

Di azionariato popolare in Italia si parla periodicamente. I casi più recenti sono quelli del Parma e dell’ Ancona, le cui proprietà, in seguito al fallimento dei club, furono rilevate dai tifosi. Come si è dimostrato, però, la partecipazione di piccoli azionisti è sostenibile soltanto ai piani più bassi della piramide calcistica, dato che i costi fissi connessi all’esercizio dell’attività a livello professionistico sono troppo elevati. E così, mentre il Parma, man mano che risaliva di categoria in categoria, si è dovuto affidare a proprietari facoltosi in grado di sostenerne le spese, l’esperienza dell’azionariato popolare ad Ancona si è conclusa con un nuovo fallimento. E difficilmente anche l’azionariato popolare dell’Inter potrà andare al di là di una simbolica partecipazione agli organi sociali da parte di qualche tifoso vip. Per ‘altro, di popolare in questo caso c’è ben poco, considerando che la quota minima per entrare a far parte di Interspac è di 500 euro, a fronte dei 60 necessari per diventare soci del Bayern Monaco.

Il modello che appare più solido e sostenibile economicamente e socialmente sembrerebbe essere proprio quello tedesco del cosiddetto 50+ 1. Fino al 1998, le squadre di calcio tedesche erano strutturate come associazioni no- profit controllate al 100% dai soci- tifosi. A partire dal 1998, per favorirne la competitività, la Federazione ha concesso che i club potessero organizzarsi come società per azioni, ma che un singolo privato non potesse detenerne più del 49%, lasciando il restante 50% + 1 in mano ai soci, che, così, ne conservavano il controllo. Uniche eccezioni, il Wolfsburg e il Bayer Leverkusen, di proprietà di due multinazionali. Se, da un lato, questa regola sembra cristallizzare la competizione interna alla Bundesliga, che dal 2013 è vinta ininterrottamente dal Bayern Monaco, espressione di una delle regioni più ricche della Germania, le cui quote di minoranza sono detenute da colossi come Adidas, Audi e Allianz (ma è poi così diverso in Italia?); dall’altro, permette di mantenere un forte cordone ombelicale tra la squadra e la comunità di cui è espressione, impedendo che si realizzino alcune storture tipiche del calcio moderno, come, ad esempio, l’esplosione del prezzo dei biglietti dello stadio, una “piaga” che si è manifestata un po’ ovunque, ma soprattutto in Inghilterra e che ha portato all’allontanamento dei tifosi “storici” ed al formarsi di una tifoseria, per così dire, apolide che frequenta i confortevoli stadi inglesi.

Mentre in Spagna il controllo dei soci si esaurisce al momento delle elezioni della cordata che per quattro anni reggerà le sorti del club, la regola del 50 +1 permette una partecipazione diretta e costante dei tifosi, con casi emblematici come quello dell’ Fc St. Pauli, squadra espressione del quartiere portuale di Amburgo, attraversato dalla Reeperbahn, la via famosa per i locali a luci rosse, e che ha il suo centro nel Millerntor, lo stadio dove ogni settimana portuali, autonomi, squatter e punk, popolano la Gegengerade, la tribuna dove si annida la parte più calda della tifoseria biancomarrone (gli stravaganti colori del St. Pauli) e dove sventola la bandiera col Jolly Roger, nera con due tibie incrociate sovrastate da un cranio bianco, la bandiera dei pirati.

E’ proprio la composizione della sua tifoseria a fare dell’ Fc St. Pauli un caso unico nel panorama del calcio tedesco e mondiale, che va ben al di là dei modesti risultati ottenuti dalla squadra, che raramente ha calcato il palcoscenico della Bundesliga. Storicamente, St. Pauli è sempre stata “la faccia sporca” di Amburgo, il quartiere proletario contrapposto a quelli della ricca borghesia mercantile. Qui mosse i primi passi il movimento operaio tedesco alla fine dell’ ottocento e qui, negli anni ottanta del secolo scorso erano all’ordine del giorno vere e proprie battaglie urbane tra la polizia e gli squatter del movimento per l’occupazione delle case abbandonate del quartiere, che si opponevano agli sgomberi e alla speculazione portata avanti dall’amministrazione comunale di Amburgo. Questo variegato mondo, a cui si aggiunsero ben presto numerosi punk e molti ex sostenitori del più titolato Hamburger SV, sempre più insofferenti al monopolio delle organizzazioni neonaziste all’interno della tifoseria della principale squadra di calcio della città, si coagulò attorno al Millerntror.

Prima con la creazione di numerose fanzine che facevano dell’antifascismo, dell’antirazzismo e dell’ antisessismo il loro marchio di fabbrica, coltivando il terreno per una cultura antagonista all’interno della tifoseria, poi con l’attivismo dentro le istituzioni societarie, i supporter del St. Pauli sono riusciti ad influenzare sempre più in profondità la politica del club. La quasi totalità dell’ ingente somma di denaro ricavata dalle quote dei singoli soci è destinata allo sviluppo di tutta una serie di progetti rivolti ai giovani, che non si esauriscono nel costante miglioramento delle strutture di allenamento delle squadre del vivaio, ma in veri e propri progetti di inclusione sociale destinati ai ragazzi del quartiere. Inoltre, la sede dell’ Associazione dei soci sostenitori dell’ Fc St. Pauli, che si trova all’interno della Gegengerade, è un punto di riferimento per tutte le associazioni e gli abitanti della zona, come luogo di condivisione di idee e progetti oltre che come sede di feste e concerti.

Ma la battaglia più importante che i pirati di St. Pauli devono combattere quotidianamente è quella contro la commercializzazione e la finanziarizzazione sempre più aggressiva del calcio moderno e la sua pretesa di trasformare i tifosi da parte attiva di una comunità, in clienti, fruitori passivi di una serie di beni e servizi di cui il calcio giocato non è, forse, nemmeno quello principale. Valga per tutti il boicottaggio del progetto Sport- Dome, ovvero la trasformazione del Millerntor in un modernissimo impianto polifunzionale, secondo il consueto schema di affiancare, accanto allo stadio, centri commerciali, negozi e altre amenità simili. Memori delle battaglie degli autonomi per l’occupazione degli alloggi abbandonati della Hafenstrasse negli anni ottanta, i tifosi del St. Pauli iniziarono una protesta clamorosa che ebbe il suo apice in uno sciopero del tifo andato in scena durante una partita giocata in casa e che contribuì al fallimento dell’operazione speculativa con cui la società dell’epoca intendeva rimpinguare le esangui finanze.

Tra alterne vicende, compreso un fallimento societario sfiorato agli inizi degli anni duemila, la storia dell’ Fc St. Pauli e della sua tifoseria di pirati prosegue ancora oggi, con la squadra che oscilla tra la Bundesliga e le serie minori. A rimanere sempre costanti sono la passione dei tifosi, che non mancano mai di gremire le tribune del Millerntor, con una media spettatori che raramente scende sotto le ventimila presenze, indipendentemente dalla categoria in cui gioca la squadra, e quella particolare atmosfera che si respira allo stadio, tra fiumi di birra, musica degli AC/DC sparata a palla all’ingresso delle squadre in campo, lo speaker che, travestito da Fidel Castro, annuncia le formazioni e punk, fricchettoni, metallari e famiglie con bambini fianco a fianco a tifare per il St. Pauli, qualcosa di più di una semplice squadra di calcio. Forse questo è il vero antidoto a quello che Gianni Mura chiamava “il calcio Ogm” di oggi e non è un caso se nessuna delle grandi squadre tedesche abbia aderito al progetto della Superlega. Pensiamoci.

Strada provinciale delle anime

All’inizio dell’estate del 1991, Gianni Celati, insieme al grande fotografo Luigi Ghirri, raduna un po’ di parenti, amici e conoscenti e li carica su una corriera azzurra, di quelle che ancora oggi attraversano le campagne della pianura collegando i paesi, anche i più piccoli, come quella che si vede correre lungo un argine all’inizio de La Giusta Distanza, il film di Mazzacurati.

La partenza è fissata dal Borgo San Giorgio a Ferrara, nella piazza davanti all’antica cattedrale della città estense. Celati deve girare un cortometraggio per la Rai e dopo aver attraversato, durante i sopralluoghi dell’inverno precedente, il territorio che va da Ferrara alle Valli di Comacchio, fino alla punta estrema del Delta veneto, decide di rifare lo stesso tragitto a bordo di una corriera azzurra insieme a trenta persone, perché <<volevamo vedere lo stesso paesaggio in un altro modo, cioè assieme a delle altre persone>>.

Nasce così Strada provinciale delle anime, il primo documentario di Gianni Celati, in cui lo scrittore di origine ferrarese torna sui luoghi che già aveva percorso quasi dieci anni prima, raccogliendo le sue annotazioni nel libro Verso la Foce, di cui il film può considerarsi il sequel per immagini.

La corriera azzurra si perde nella campagna, apparentemente senza un itinerario prestabilito, con il suo carico di umanità varia che ricorda un po’ la Corriera stravagante di Steinbeck. Attraversa paesi che sembrano usciti dai racconti sul far west e avanza indolente verso la foce del Po, come attirata da un’ invisibile calamita. Il Delta, per chi ne abbia una conoscenza non superficiale, è uno stato d’animo piuttosto che un luogo fisico, un perdersi in infiniti silenzi e in spazi che la pianura dilata e man mano che ci avviciniamo al mare è come se ci spogliassimo di tutto quello che di superfluo appesantisce le nostre vite, fino a raggiungere un grado di leggerezza spirituale che è ciò che più rassomiglia all’ideale di Libertà. Come scrive lo stesso Celati in Verso la foce, <<come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicini alla nostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi>>.

Anche il titolo del documentario di Gianni Celati rimanda a quel senso di astrazione che coglie chi attraversi le campagne tra la Grande Bonifica Ferrarese e il Delta del Po. Strada provinciale delle anime, infatti, è un’indicazione stradale che non porta da nessuna parte, quasi che si trattasse di una beffa del destino, un volersi prendere gioco del bisogno, oggi ancora più accentuato, di direzioni certe, di mappature precise, con l’ausilio di tecnologie satellitari che hanno stravolto il concetto stesso di viaggio, ridotto ad un banale e razionale spostamento da un punto ad un altro. Mi piace pensare che cartelli stradali di questo tipo, che ancora oggi si possono trovare inoltrandosi negli angoli più remoti della nostra pianura, rappresentino la rivincita ironica del Viandante nei confronti del Turista.

https://www.raiplay.it/video/2019/01/STRADA-PROVINCIALE-DELLE-ANIME-6b0bdaa7-bbf6-4ebf-ad8a-f5ee60ffef10.html