
Di film realmente riusciti sul mondo del calcio ne ricordo pochi, meno di una manciata. L’ argomento non è dei più semplici, si tratta di penetrare in un mondo chiuso, che all’esterno mostra solo l’effimero luccichìo di un’ immagine stereotipata. Non è un caso se, almeno in Italia, gli unici film che hanno avuto un certo successo sono quelli che lo hanno affrontato in chiave grottesca, come Il Presidente del Borgorosso Footbal Club, del 1970, con Alberto Sordi, o il celeberrimo L’Allenatore nel Pallone, del 1984, in cui un Lino Banfi particolarmente in forma ha reso immortale la maschera stralunata di Oronzo Canà, allenatore dalle idee particolarmente originali, pare ispirato alla reale figura di Oronzo Pugliese.
Due film, invece, hanno cercato di scavare più a fondo e, forse per questo, non hanno avuto il successo che meritavano. Uno è l’esordio alla regia del premio oscar Paolo Sorrentino, L’Uomo in più, del 2001, in cui il regista affronta il delicato passaggio dalla carriera agonistica alla vita “normale”, con quel senso di vuoto così difficile da riempire per chi ha vissuto sotto i riflettori e che tanti calciatori, anche in tempi recenti, ha messo in crisi. La figura di Antonio Pisapia, il protagonista del film di Sorrentino, anche per la tragica fine che fa, è ispirata ad Agostino Di Bartolomei, il grande capitano della Roma di Liedholm, suicidatosi il 30 maggio 1994, esattamente dieci anni dopo la sconfitta contro il Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni del 1984.
L’altro film, forse il più interessante, e che, al pari de L’Uomo in più, ha goduto di scarso successo, è Ultimo Minuto, una vivisezione crudele e assolutamente veritiera del mondo del calcio, con la sua corruzione, i suoi rapporti clientelari e il suo sottobosco, formato da un’ umanità tanto dolente quanto spietata. Ultimo Minuto è un film di Pupi Avati del 1987, per la scrittura del quale il regista bolognese si è avvalso della collaborazione dei giornalisti Italo Cucci e Michele Plastino e che è nobilitato dall’ interpretazione straordinaria di Ugo Tognazzi, capace di dare vita, sangue e anima al personaggio dell’ avvocato Walter Ferroni, General Manager di una piccola squadra di provincia, abituata a salvarsi all’ultima giornata di Serie A grazie più agli intrallazzi del suo direttore che ai meriti di un allenatore incapace, che rimane al suo posto solo per il fatto di essere una vecchia gloria del passato.
Dopo aver sacrificato vita, affetti familiari e sostanze per il bene della squadra, Ferroni viene estromesso dal suo ruolo dal nuovo rampante presidente, interpretato da Lino Capolicchio, recentemente scomparso, uno dei tanti attori “feticcio” di Pupi Avati che compaiono nel film, simbolo di un calcio che, alla passione, va sostituendo il potere del denaro, nella convinzione che una società calcistica possa essere gestita come un qualunque asset finanziario. Ma ai primi risultati negativi, gli stessi tifosi che avevano salutato con entusiasmo l’arrivo del ricco presidente, gli si rivoltano contro, costringendolo a richiamare il vecchio Ferroni, che, per prima cosa, riporta in squadra Boschi (Massimo Bonetti), campione sul viale del tramonto, di cui sua figlia (interpretata da una giovanissima Elena Sofia Ricci) è innamorata. Nella partita del suo ritorno, però, Boschi tradisce la fiducia del general manager, accettando denaro da dei faccendieri per combinare il risultato. Sarà il diciassettenne Paolo Tassoni, giovane promessa scoperta dal talent scout Duccio Venturi (Diego Abatantuono) a salvare Ferroni, segnando il gol della vittoria contro l’Avellino all’ ultimo minuto. E mentre la folla festeggia, Ferroni, estenuato, resta inchiodato alla panchina, in un’ immagine di straordinaria solitudine a cui Tognazzi riesce a dare una verità commovente.
Ultimo Minuto fu uno degli ultimi film di Tognazzi, un progetto al quale l’attore aveva creduto molto, ma che non ebbe il successo sperato. Anni dopo Italo Cucci disse che la figura dell’avvocato Ferroni era ispirata un pò ad Italo Allodi, il general manager della Grande Inter di Angelo Moratti, un pò al primo Luciano Moggi. Visto a distanza di trentacinque anni, il film di Pupi Avati lascia un velo di nostalgia: oggi figure come quelle dell’avvocato Ferroni non vestono più impermeabili scoloriti, non vivono in stanze di alberghetti di ultima, non viaggiano più su treni di seconda classe per andare a pietire un favore a un dirigente amico o per scovare un talento in provincia, ma usano lo slang degli uomini d’affari, salgono su macchine di lusso e il loro tratto distintivo è la volgarità degli arricchiti.
Ci vorrebbe qualcuno che scrivesse un soggetto per un film su questo mondo di nuovi mostri, ma temo che si tradurrebbe in una farsa. Un pò com nel finale di Boris- Il Film, dove il soggetto di denuncia tratto da La Casta, il libro di Rizzo e Stella, finisce per trasformarsi nel più becero dei cine panettoni. Perchè, forse, è questo che ci meritiamo.